Sono passati trenta anni dalla legge Galli e sulla gestione delle risorse idriche restano problemi gravi che per certi versi si sono addirittura accentuati, primo fra tutti un forte divario fra due Italie: da una parte l’Italia delle gestioni idriche di tipo industriale; dall’altra l’Italia – soprattutto al Sud – in cui permangono una fortissima frammentazione gestionale e numerose gestioni in economia. I gruppi nati e cresciuti con fusioni e accorpamenti fra realtà aziendali solide (in genere pubbliche e originariamente in house, a volte con importanti partecipazioni private) macinano fatturati, utili e investimenti. Le micro-concessioni, legate quasi sempre a logiche di spartizione politica locale, resistono – lo hanno fatto per un trentennio – al disegno riformatore senza passi avanti sul piano dell’efficienza.
In questi trenta anni, tre fatti hanno scosso lo scenario in cui la gestione delle risorse idriche si muove: quello che è partito in sordina nel 2012 ma sta lasciando i segni più vistosi – in termini di efficienza gestionale del sistema e di investimenti – è la regolazione tariffaria affidata a un’Authority indipendente (ora ARERA); quello che ha prodotto uno sconquasso istituzionale momentaneo ma è stato poi sostanzialmente riassorbito per mancanza di proposte gestionali efficienti è il referendum “acqua pubblica” del 2011; quello che non ci lascerà più e per il momento sta mettendo sul tavolo problemi enormi – a partire dalla crescente siccità – senza soluzioni certe è il cambiamento climatico.
Utilitalia, l’organizzazione che rappresenta le aziende dei servizi di pubblica utilità, guidata dal presidente Filippo Brandolini, è tornata sulle problematiche del settore idrico con un recente paper intitolato «La riforma del comparto idrico: sviluppo industriale del servizio e tutela dei territori». Lo studio parte da un’analisi storica per fare il punto del servizio ma poi guarda avanti alle necessità del prossimo futuro, confermando che la regolazione indipendente ha portato risultati importanti e segnalando il dato degli investimenti effettuati: con una media annua attuale di 4 miliardi di euro, l’incremento rispetto al 2012, primo anno di regolazione, è del 227%. Questa cifra sale al 700% se prendiamo gli anni “bui” antecedenti all’avvio della regolazione, dal 2009 al 2011.
Questo non toglie che bisogna accelerare sugli investimenti. Bisogna estendere a tutta la popolazione il servizio di migliore qualità. Bisogna far fronte alle incombenti sfide climatiche, che richiedono una gestione olistica della risorsa acqua e una maggiore integrazione fra business idrico tradizionale e nuove capacità di stoccaggio e riuso. E poi ci sono i problemi di sempre: il 58% della rete acquedottistica ha più di trenta anni e il 22% più di cinquanta; le perdite di acqua nei tubi sono al 41,8% con miglioramento di poco inferiore a due punti percentuali in un decennio.
Il paper fotografa anche i guasti di una governance multiforme in cui non di rado le resistenze di campanile hanno vinto sul disegno industriale che continua a essere escluso da molte aree del Paese: 1.519 comuni hanno almeno un servizio fra acquedotto, fognatura e depurazione gestito in economia; la modalità prevalente di gestione in termini numerici resta l’in-house (50,6% della popolazione) che con i servizi in economia (9,4% della popolazione) rappresentano le forme di gestione meno efficienti e con il più basso livello di investimento (8 euro per abitante); nel 10% del territorio addirittura manca ancora l’ente di gestione di ambito. Squarci di un mondo arretrato mentre c’è un altro mondo che corre e, trainato dalle società quotate in borsa (Acea, Hera, Iren, A2A), arriva a 60 euro di investimento per abitante, oltre sette volte più delle gestioni in economia.
Il paper di Utilitalia vuole soprattutto focalizzare le condizioni di sistema che potrebbero portare a una forte accelerazione degli investimenti, ma anche a un ridisegno della geografia dei gestori in Italia. In particolare, è proprio sulla aree grigie della governance che attacca Utilitalia, ritenendo che dopo 30 anni sia giunto il momento della resa dei conti fra i due mondi che hanno mal convissuto e del pieno compimento del disegno della legge Galli.
In altre parole, secondo Utilitalia, questo è il momento di vincere resistenze e spazzare via le gestioni inefficienti, facendo più spazio ai gestori che si sono rivelati più capaci. Perché è qui che, in fondo, vuole arrivare l’organizzazione dei gestori di pubblici servizi, sempre più attenta all’efficienza di cui sono portatori i grandi gruppi: allargare il perimetro orizzontale e verticale dei gestori industriali.
Utilitalia immagina quattro mosse per compiere quello strappo che finora la politica, nazionale e locale, ha sempre evitato. Eccole, tratte dal documento.
1) Affidamenti, nei territori inadempienti subentrano le Regioni. Bisogna garantire l’immediato trasferimento alle Regioni dell’esercizio delle funzioni e il mantenimento delle stesse per tutta la durata dell’affidamento a regime del SII, in tutti quei territori in cui sussistono ancora gestioni in economia. Garantire la scelta più adatta al contesto tra tutte le forme di gestione ammesse, introducendo l’espressa possibilità, in caso di gara a doppio oggetto per la costituzione di una società mista, che sia il “commissario” a esercitare le funzioni del socio pubblico (in deroga al testo unico sui servizi pubblici locali).
2) Introdurre parametri di verifica della capacità gestionale. Un’altra cosa che non si è mI riuscita a fare è introdurre parametri oggettivi di capacità gestionale (ARERA/MEF) sulla base dei quali effettuare verifiche semestrali. Utilitalia chiede che si faccia subito. Se viene verificata l’incapacità gestionale, l’Ente di Governo dell’ambito dovrà effettuare una scelta responsabile: i) utilizzare gli strumenti giuridici a sua disposizione per revocare la concessione; ii) adottare una delibera motivata che spieghi le eventuali ragioni per la prosecuzione della gestione.
3) Piccolo non è bello: ambiti più ampi e aggregazioni. «Incentivare la crescita orizzontale tramite affidamenti per ambiti più ampi, non necessariamente legati a linee di demarcazione di carattere amministrativo, ma più aderenti alle esigenze operative e all’efficienza, nonché introducendo una finestra temporale concordata in Europa per garantire il mantenimento degli affidamenti anche in caso di aggregazioni senza gara».
4) Non solo SII: riuso, acque meteoriche, drenaggio urbano e infrastrutture di distretto. I gestori del SII come soggetti industriali avanzati possono svolgere un ruolo importante nello sviluppo infrastrutturale per la gestione della risorsa acqua in maniera efficace ed efficiente andando oltre l’attuale perimetro del servizio idrico integrato per svilupparlo in senso verticale (infrastrutture per il riuso, gestione sostenibile delle acque meteoriche e drenaggio urbano, infrastrutture di livello distrettuale etc.).
Se il punto 2) con la revoca delle concessioni contiene la misura più dirompente, è dal punto 3) che meglio si comprende il disegno di espansione interna che porterebbe i grandi gestori a mangiarsi una discreta quantità di piccole gestioni inefficienti, semplicemente allargando il confine degli ambiti in cui già operano o acquisendone altri in nome dell’efficienza, ma «senza gara». Un passaggio da concordare necessariamente con un’Europa che ha sempre messo in discussione l’espansione «senza gara» dei gestori, anche quando fossero quotati in borsa (oggi non è più possibile quotarsi in borsa se si è una società in-house). Senza contare che questo allargamento del perimetro orizzontale potrebbe essere – secondo il documento – una leva anche per una possibile «finestra» di deroghe e prolungamenti delle concessioni in scadenza.